martedì 27 dicembre 2011

Vessatoria la clausola contrattuale che riproduce una disposizione di legge (Cassazione civile Sentenza 18/08/2011, n. 17360)

È destinata a destare il sicuro interesse degli operatori del diritto, la pronuncia con la quale gli ermellini hanno affermato che può essere giudicata vessatoria anche la clausola contrattuale che riproduca una disposizione di legge.
Questi in breve i fatti oggetto di causa:
il contraente di una polizza assicurativa corrisponde il premio relativo al primo anno del contratto mancando, però, di corrispondere quelli relativi agli anni successivi.
Trascorre un anno dalla scadenza della prima rata del premio non versato e la compagnia assicurativa comunica al contraente la propria intenzione di risolvere del contratto con la conseguente trattenuta del premio già corrisposto e il rifiuto di riattivare lo stesso in quanto è decorso il termine per l'esercizio della relativa facoltà (da esercitarsi entro l'anno di scadenza della prima rata di premio insoluta). Il contratto di assicurazione – chiamato "Più Pensione" - prevede a fronte del pagamento del premio, ripartito in rate annuali, l'obbligazione della compagnia assicurativa di pagare, al termine del contratto, una predeterminata rendita annua all'assicurato o, in caso di sopravvenuta morte di quest'ultimo prima dello spirare del termine contrattuale, di versare al beneficiario indicato in polizza, previa rivalutazione, tutti i premi corrisposti dallo stipulante.
Il contraente promuove, quindi, l'azione giudiziaria contro la compagnia assicurativa per chiedere ed ottenere la restituzione del premio pagato o, in via subordinata, l'esercizio del diritto di riscatto, come da contratto, chiedendo di avvalersi del diritto di corrispondere i premi degli anni successivi al primo.
Oggetto principale di lagnanza è la vessatorietà e, quindi, l'inefficacia della clausola che sanziona il mancato pagamento di una sola rata del premio dei primi due anni con la risoluzione del contratto.
Tanto il Giudice di prime cure quanto quello di appello respingono la tesi sostenuta dall’assicurato ed escludono la vessatorietà della clausola in oggetto "in quanto riproducente disposizioni di legge".
Tale decisione viene impugnata con ricorso per cassazione dall’assicurato il quale afferma che quello concluso con la compagnia d'assicurazione non è un contratto di assicurazione sulla vita, ma vada, piuttosto, inquadrato come un contratto di finanziamento con fini previdenziali e che, pertanto, il carattere di vessatorietà della clausola contrattuale contestata debba essere valutato in forza di tale più corretta qualificazione giuridica.
Il Giudice delle Leggi accoglie il primo motivo svolto dal ricorrente sostenendo che errata è stata la qualificazione e l’interpretazione del contratto da parte del giudice di prime cure in prendendo le mosse dalla valutazione del tenore testuale delle disposizioni contrattuali tralasciando l'analisi degli interessi concreti perseguiti dai contraenti.
Invero, la Corte d'Appello di Bologna, è pervenuta all'identificazione del negozio de quo, quale contratto di assicurazione sulla vita dando particolare risalto all'espresso riferimento nel contratto alla vita dell'assicurato nonché al rinvio, che nello stesso viene fatto, alla normativa europea in subiecta materia.
Arrestando la propria interpretazione alla valutazione letterale del nomen juris assegnato dalle parti al contratto, il giudice di merito avrebbe trascurato di considerare la finalità soggettiva perseguita dalle parti, quella, in altri termini, che rappresenta la causa concreta del negozio giuridico.
Il termine causa concreta indica che la causa non s'individua più astrattamente, ossia in base allo schema contrattuale scelto dalle parti, ma, all’opposto, va desunta da tutti gli elementi di cui si compone il singolo contratto, talché l’elemento che caratterizza la causa è l'interesse concretamente perseguito dalle parti con il singolo contratto.
La causa, dunque, identifica e rappresenta lo scopo pratico del negozio, ossia la sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là dello schema negoziale astrattamente utilizzato dai contraenti.
Ad avviso della Suprema Corte, pertanto, i giudici del merito avrebbero dovuto nel caso in esame, anziché valorizzare la causa astratta del contratto, facendo riferimento al tipo contrattuale prefigurato dal legislatore, ricercare l'effettiva funzione pratica del negozio, cioè il reale interesse che muoveva le parti alla stipulazione del negozio.
Ad avviso del giudice di legittimità, appare allora evidente che nel valutare l’analisi del giudice di prime cure si dimostra carente laddove egli non si è interrogato sul significato concreto, e non solo letterale, del nomen juris e quindi sull’esigenze che hanno portato alla stipula del contratto di assicurazione.
Di ciò, invece, non vi è traccia in quanto i giudici del merito hanno valorizzato la causa astratta ritenendo del tutto irrilevanti le motivazioni personali dei contraenti.
Il secondo profilo ritenuto dal giudice di legittimità meritevole di censura riguarda l'aprioristica e apodittica esclusione da parte della Corte d’appello della natura vessatoria della clausola in quanto riproduttiva di una disposizione di legge ed, in specie, dell’art. 1924, secondo comma, c.c. a mente del quale se l’assicurato non versa i premi degli anni successivi al primo il contratto si assume risolto di diritto con la conseguente trattenuta da parte dell’assicuratore di quelli già pagati.
Invero, per escludere la vessatorietà di una clausola, ai sensi dell'art. 34, terzo comma, D.lgs. n. 206/2005 già presente dall’art. 1469 ter, terzo comma, c.c., non è sufficiente riprodurre una norma di legge, ma occorre che nella stessa venga riportato il contenuto precettivo di una norma imperativa.
Viceversa devono, quindi, ritenersi soggette sempre al controllo giudiziale di vessatorietà quelle clausole con le quali il predisponente si avvale di una facoltà che la norma gli riconosce nel contesto e nei limiti normativi in cui tale riconoscimento si colloca ed opera.
Tale principio è richiamato dalla Direttiva Europea del Consiglio n. 13 del 5 aprile 1993 - concernente la disciplina delle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori - nell'escludere la vessatorietà delle clausole riproduttive di leggi fa espresso riferimento alle disposizioni legislative o regolamentari imperative.
Bisogna, quindi, verificare se la clausola in oggetto riproduca o meno il nucleo precettivo di una norma imperativa.
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione rileva che il terzo comma dell’art. 34 del D.lgs. n. 206/2005, interpretato alla luce della Direttiva Europea n. 13/93, induce ad escludere la vessatorietà della clausola soltanto se essa riproduca le norme predisposte per disciplinare i contratti con i consumatori.
Ne consegue, dunque, che dovrà sempre accertarsi la natura vessatoria della clausola:
1)     quando la clausola non riproduce la disciplina dei contratti con i consumatori;
2)     quando tale clausola, non sia stata oggetto di trattativa individuale così da scongiurare il pericolo di uno squilibrio nell’economia contrattuale;
Posto, quindi, che nel caso di specie ricorrevano entrambe le condizioni, l’errore commesso dai giudici di merito e stigmatizzato dal Supremo Collegio è stato quello di non considerare che essa è stata inserita in un contratto di consumo e, nella specie, in un contratto per adesione, come tale, perfezionato senza alcuna trattativa.
Le condizioni generali di contratto ossia quelle clausole con un contenuto uniforme suscettibile di essere applicato a tutti i contratti di quel tipo sono state predisposte unilateralmente dalla parte contrattuale più forte.
La sentenza della Corte d’Appello è stata, pertanto, cassata nella parte in cui la vessatorietà clausola riproduttiva dell’art. 1924, secondo comma, c.c. non è stata valutata alla stregua della disciplina dettata in ordine alle clausole abusive.

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