martedì 27 dicembre 2011

Vessatoria la clausola contrattuale che riproduce una disposizione di legge (Cassazione civile Sentenza 18/08/2011, n. 17360)

È destinata a destare il sicuro interesse degli operatori del diritto, la pronuncia con la quale gli ermellini hanno affermato che può essere giudicata vessatoria anche la clausola contrattuale che riproduca una disposizione di legge.
Questi in breve i fatti oggetto di causa:
il contraente di una polizza assicurativa corrisponde il premio relativo al primo anno del contratto mancando, però, di corrispondere quelli relativi agli anni successivi.
Trascorre un anno dalla scadenza della prima rata del premio non versato e la compagnia assicurativa comunica al contraente la propria intenzione di risolvere del contratto con la conseguente trattenuta del premio già corrisposto e il rifiuto di riattivare lo stesso in quanto è decorso il termine per l'esercizio della relativa facoltà (da esercitarsi entro l'anno di scadenza della prima rata di premio insoluta). Il contratto di assicurazione – chiamato "Più Pensione" - prevede a fronte del pagamento del premio, ripartito in rate annuali, l'obbligazione della compagnia assicurativa di pagare, al termine del contratto, una predeterminata rendita annua all'assicurato o, in caso di sopravvenuta morte di quest'ultimo prima dello spirare del termine contrattuale, di versare al beneficiario indicato in polizza, previa rivalutazione, tutti i premi corrisposti dallo stipulante.
Il contraente promuove, quindi, l'azione giudiziaria contro la compagnia assicurativa per chiedere ed ottenere la restituzione del premio pagato o, in via subordinata, l'esercizio del diritto di riscatto, come da contratto, chiedendo di avvalersi del diritto di corrispondere i premi degli anni successivi al primo.
Oggetto principale di lagnanza è la vessatorietà e, quindi, l'inefficacia della clausola che sanziona il mancato pagamento di una sola rata del premio dei primi due anni con la risoluzione del contratto.
Tanto il Giudice di prime cure quanto quello di appello respingono la tesi sostenuta dall’assicurato ed escludono la vessatorietà della clausola in oggetto "in quanto riproducente disposizioni di legge".
Tale decisione viene impugnata con ricorso per cassazione dall’assicurato il quale afferma che quello concluso con la compagnia d'assicurazione non è un contratto di assicurazione sulla vita, ma vada, piuttosto, inquadrato come un contratto di finanziamento con fini previdenziali e che, pertanto, il carattere di vessatorietà della clausola contrattuale contestata debba essere valutato in forza di tale più corretta qualificazione giuridica.
Il Giudice delle Leggi accoglie il primo motivo svolto dal ricorrente sostenendo che errata è stata la qualificazione e l’interpretazione del contratto da parte del giudice di prime cure in prendendo le mosse dalla valutazione del tenore testuale delle disposizioni contrattuali tralasciando l'analisi degli interessi concreti perseguiti dai contraenti.
Invero, la Corte d'Appello di Bologna, è pervenuta all'identificazione del negozio de quo, quale contratto di assicurazione sulla vita dando particolare risalto all'espresso riferimento nel contratto alla vita dell'assicurato nonché al rinvio, che nello stesso viene fatto, alla normativa europea in subiecta materia.
Arrestando la propria interpretazione alla valutazione letterale del nomen juris assegnato dalle parti al contratto, il giudice di merito avrebbe trascurato di considerare la finalità soggettiva perseguita dalle parti, quella, in altri termini, che rappresenta la causa concreta del negozio giuridico.
Il termine causa concreta indica che la causa non s'individua più astrattamente, ossia in base allo schema contrattuale scelto dalle parti, ma, all’opposto, va desunta da tutti gli elementi di cui si compone il singolo contratto, talché l’elemento che caratterizza la causa è l'interesse concretamente perseguito dalle parti con il singolo contratto.
La causa, dunque, identifica e rappresenta lo scopo pratico del negozio, ossia la sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là dello schema negoziale astrattamente utilizzato dai contraenti.
Ad avviso della Suprema Corte, pertanto, i giudici del merito avrebbero dovuto nel caso in esame, anziché valorizzare la causa astratta del contratto, facendo riferimento al tipo contrattuale prefigurato dal legislatore, ricercare l'effettiva funzione pratica del negozio, cioè il reale interesse che muoveva le parti alla stipulazione del negozio.
Ad avviso del giudice di legittimità, appare allora evidente che nel valutare l’analisi del giudice di prime cure si dimostra carente laddove egli non si è interrogato sul significato concreto, e non solo letterale, del nomen juris e quindi sull’esigenze che hanno portato alla stipula del contratto di assicurazione.
Di ciò, invece, non vi è traccia in quanto i giudici del merito hanno valorizzato la causa astratta ritenendo del tutto irrilevanti le motivazioni personali dei contraenti.
Il secondo profilo ritenuto dal giudice di legittimità meritevole di censura riguarda l'aprioristica e apodittica esclusione da parte della Corte d’appello della natura vessatoria della clausola in quanto riproduttiva di una disposizione di legge ed, in specie, dell’art. 1924, secondo comma, c.c. a mente del quale se l’assicurato non versa i premi degli anni successivi al primo il contratto si assume risolto di diritto con la conseguente trattenuta da parte dell’assicuratore di quelli già pagati.
Invero, per escludere la vessatorietà di una clausola, ai sensi dell'art. 34, terzo comma, D.lgs. n. 206/2005 già presente dall’art. 1469 ter, terzo comma, c.c., non è sufficiente riprodurre una norma di legge, ma occorre che nella stessa venga riportato il contenuto precettivo di una norma imperativa.
Viceversa devono, quindi, ritenersi soggette sempre al controllo giudiziale di vessatorietà quelle clausole con le quali il predisponente si avvale di una facoltà che la norma gli riconosce nel contesto e nei limiti normativi in cui tale riconoscimento si colloca ed opera.
Tale principio è richiamato dalla Direttiva Europea del Consiglio n. 13 del 5 aprile 1993 - concernente la disciplina delle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori - nell'escludere la vessatorietà delle clausole riproduttive di leggi fa espresso riferimento alle disposizioni legislative o regolamentari imperative.
Bisogna, quindi, verificare se la clausola in oggetto riproduca o meno il nucleo precettivo di una norma imperativa.
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione rileva che il terzo comma dell’art. 34 del D.lgs. n. 206/2005, interpretato alla luce della Direttiva Europea n. 13/93, induce ad escludere la vessatorietà della clausola soltanto se essa riproduca le norme predisposte per disciplinare i contratti con i consumatori.
Ne consegue, dunque, che dovrà sempre accertarsi la natura vessatoria della clausola:
1)     quando la clausola non riproduce la disciplina dei contratti con i consumatori;
2)     quando tale clausola, non sia stata oggetto di trattativa individuale così da scongiurare il pericolo di uno squilibrio nell’economia contrattuale;
Posto, quindi, che nel caso di specie ricorrevano entrambe le condizioni, l’errore commesso dai giudici di merito e stigmatizzato dal Supremo Collegio è stato quello di non considerare che essa è stata inserita in un contratto di consumo e, nella specie, in un contratto per adesione, come tale, perfezionato senza alcuna trattativa.
Le condizioni generali di contratto ossia quelle clausole con un contenuto uniforme suscettibile di essere applicato a tutti i contratti di quel tipo sono state predisposte unilateralmente dalla parte contrattuale più forte.
La sentenza della Corte d’Appello è stata, pertanto, cassata nella parte in cui la vessatorietà clausola riproduttiva dell’art. 1924, secondo comma, c.c. non è stata valutata alla stregua della disciplina dettata in ordine alle clausole abusive.

venerdì 23 dicembre 2011

Il socio di minoranza di società non quotata può proporre querela per il reato di false comunicazioni sociali

In tema di false comunicazioni sociali in danno di società, soci o creditori, si riporta un’interessante pronuncia della Corte Suprema di Cassazione chiamata a decidere sulla legittimità a proporre querela da parte del socio di minoranza di società non quotata.
Va premesso, in proposito, che il reato previsto dall’art. 2622 c.c., ove riguardi una società non quotata, è perseguibile a querela della persona offesa che va individuata in colui che ha sofferto un danno patrimoniale a causa dell’illecito commesso.
La norma mira alla tutela del patrimonio della società, stabilendo il diritto a favore dei soci e creditori a ricevere informazioni vere, affidabili e trasparenti.
Partendo da tali presupposti, a parere della Cassazione la norma afferma, dunque, il principio secondo cui il controllo del socio, anche di minoranza, sullo svolgimento degli affari sociali - inclusa l’azione di responsabilità degli amministratori ex art. 2476 c.c. - non può che essere attuato attraverso la veridicità delle comunicazioni sociali. (Cass. pen. n. 36924/11).

giovedì 22 dicembre 2011

La risoluzione del leasing traslativo

Nell'aprile del 2004 il tribunale di Milano rigettò l'opposizione proposta dal debitore principale e dal fideiussore avverso il decreto ingiuntivo ottenuto nei loro confronti da una società finanziaria quale parte concedente di un contratto di leasing avente ad oggetto attrezzature e arredi destinati alla ristorazione.
La corte di appello di Milano, investita del gravame proposto dai due debitori, lo rigettò a sua volta.
I due opponenti impugnarono la sentenza della corte territoriale con ricorso per cassazione
con cui i due ricorrenti formulavano il seguente quesito di diritto:
- Se, in tema di leasing traslativo, in caso di risoluzione anticipata ancorchè imputabile ad inadempimento dell'utilizzatore, questi non abbia diritto alla restituzione dei canoni corrisposti ex art. 1526 c.c. e sia tenuto a corrispondere i canoni a scadere maggiorati degli interessi convenzionali.
Il giudice della corte territoriale - esaminato il leasing traslativo ed evocata la giurisprudenza sull’applicabilità della norma di cui all'art. 1526 c.c., che prevede, in caso di risoluzione del contratto, la restituzione dei canoni già corrisposti da parte del concedente ed il riconoscimento di un equo indennizzo da parte dell’utilizzatore, per il godimento dei beni in ragione del loro utilizzo, - dichiarava nulla la clausola n. 12 del contratto di leasing, contenente la previsione dell'obbligo di pagamento in unica soluzione, da parte dell'utilizzatore, dei canoni non ancora scaduti.
 Tuttavia, la corte d’appello - sulla premessa secondo la quale la mancata restituzione dei beni da parte dell'utilizzatore avrebbe realizzato "una situazione con effetti analoghi a quella di regolare esecuzione del contratto" – affermava che l'equo compenso dovuto dall'utilizzatore potesse "essere quantificato nella entità del debito, compresi gli interessi convenzionali (conteggiati, questi ultimi, entro e non oltre il limite di legge)".
In altri termini, la corte territoriale, a parere della Suprema Corte, nonostante la declaratoria di nullità della clausola contrattuale dianzi citata, ne riesumava gli effetti.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, afferma, invece, che tale decisione si pone in aperto contrasto con il consolidato principio di diritto, secondo il quale il concedente, in caso di risoluzione contrattuale, mantenendo la proprietà del bene ed acquisendo i canoni maturati fino al momento della risoluzione, “non può e non deve conseguire un indebito vantaggio derivante da un cumulo di utilità (somma dei canoni e residuo valore del bene), in contrasto con lo specifico dato normativo di cui all'art. 1526 c.c., norma di carattere inderogabile” (Cass. 27.9.2011, n. 19732).
Quale corollario del principio appena enunciato, la Corte di Cassazione ha altresì osservato che l'art. 1526 c.c. mira a “remunerare il solo godimento senza ricomprendere anche la quota destinata al trasferimento finale […] dei beni concessi in leasing.

mercoledì 21 dicembre 2011

Il Ricorso avverso il verbale di contestazione è motivo idoneo alla mancata indicazione delle generalità del conducente.

Il Ministero dell’Interno con circolare 29.4.2011 n. 300/A/3971, aderendo al principio espresso dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 27/2005, ha chiarito che “la presentazione di un ricorso avverso il verbale di contestazione costituisce un giustificato e documentato motivo di omissione dell’indicazione delle generalità del conducente.
Con la medesima circolare, il Ministero ha precisato, inoltre, in tema di decorrenza del termine previsto per adempiere agli obblighi di comunicazione ex artt. 126 bis e 180 C.d.S., che l’organo accertatore deve procedere a redigere un nuovo invito a carico dell’obbligato in solido, dalla cui data di notifica decorre il termine di 60 giorni.
Min. Int. circ. n. 3971/29.04.2011

martedì 20 dicembre 2011

Il Prefetto non ha il potere di autorizzare il controllo di velocità con strumenti elettronici su tratti stradali diversi da quelli previsti dalla legge.

La Corte di Cassazione, con una recente pronuncia, ha sancito l’impossibilità per il Prefetto di autorizzare il controllo remoto della velocità su tratti stradali diversi da quelli indicati nella Legge 168/02, ovvero facendo riferimento a criteri diversi da quelli previsti dall’art. 2, comma terzo, codice della strada.
Per comprendere le ragioni della decisione, occorre ripercorrere brevemente l’iter logico argomentativo seguito dalla Suprema Corte.
Il quarto comma dell’art. 4 della legge 1 agosto 2002, n. 168 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 giugno 2002, n. 121, recante disposizioni urgenti per garantire la sicurezza nella circolazione stradale), prevede che il principio di immediata contestazione possa subire una deroga ogni qualvolta per rilevare le violazioni del Codice della Strada gli organi di polizia stradale si avvalgano di mezzi tecnici o dispositivi elettronici preposti al controllo del traffico (“Nelle ipotesi in cui vengano utilizzati i mezzi tecnici o i dispositivi di cui al presente articolo, non vi e' l'obbligo di contestazione immediata di cui all'articolo 200 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285”).
Tuttavia, un corretto inquadramento della norma impone una lettura coordinata del quarto comma con la disposizione che, invece, figura al primo comma dello stesso articolo.
Un esame disgiunto delle predette disposizioni, infatti, finirebbe per esporre l’interprete al rischio, concreto e inevitabile, di assegnare alla norma un significato in conflitto con la complessiva ratio legis in essa sottesa.
Il primo comma dell’articolo 4 circoscrive chiaramente l’ambito applicativo della norma alle sole autostrade e strade extraurbane laddove viene stabilito che “Sulle autostrade e sulle strade extraurbane principali di cui all'articolo 2, comma 2, lettere A e B, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, gli organi di polizia stradale di cui all'articolo 12, comma 1, del medesimo decreto legislativo, secondo le direttive fornite dal Ministero dell'interno, sentito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, possono utilizzare o installare dispositivi o mezzi tecnici di controllo del traffico, di cui viene data informazione agli automobilisti, finalizzati al rilevamento a distanza delle violazioni alle norme di comportamento di cui agli articoli 142 e 148 dello stesso decreto legislativo, e successive modificazioni. I predetti dispositivi o mezzi tecnici di controllo possono essere altresi' utilizzati o installati sulle strade di cui all'articolo 2, comma 2, lettere C e D, del citato decreto legislativo, ovvero su singoli tratti di esse, individuati con apposito decreto del prefetto ai sensi del comma 2”.
Le strade di cui alle lettere C e D sono meglio identificate all’art. 2, comma 3, ove per:
a)     Strada Extraurbana Secondaria si intende una strada ad unica carreggiata con almeno una corsia per senso di marcia e banchine (lett. C);
b)     Strada Urbana di Scorrimento si intende una strada a carreggiate indipendenti o separate da spartitraffico, ciascuna con almeno due corsie di marcia, ed una eventuale corsia riservata ai mezzi pubblici, banchina pavimentata a destra e marciapiedi con le eventuali intersezioni a raso semaforizzate; per la sosta sono previste apposite aree o fasce laterali estranee alla carreggiata, entrambe con immissioni ed uscite concentrate (lett. D).
L’art. 2, comma 7 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, (Codice della Strada) prevede inoltre che “le strade urbane di cui alle lettere D, E e F, sono sempre comunali quando siano situate nell’interno dei centri abitatati, eccettuati i tratti interni di strade statali, regionali o provinciali che attraversano centri abitati con popolazione non superiore a diecimila abitanti.
L’art. 3, comma 1, punto 8, dello stesso decreto, chiarisce, infine, che per centro abitato deve intendersi “l’insieme di edifici, delimitato lungo le vie di accesso dagli appositi segnali di inizio e fine. Per insieme di edifici si intende un raggruppamento continuo, ancorché intervallato da strade, piazze, giardini o simili, costituito da non meno di venticinque fabbricati e da aree di uso pubblico con accessi veicolari o pedonali sulla strada.
Ebbene, in applicazione delle norme in commento, è possibile affermare che le strade di tipo comunale, che si trovano all’interno di un centro abitato essendo costeggiate in entrambi i lati da case ed altri edifici, sarebbero escluse dalle disposizioni dianzi citate.
Le strade comunali vanno, infatti, collocate tra le strade urbane di cui al comma 2 lettere D, E ed F dell’art. 2 del Codice della Strada.
In particolare, ove tali strade non siano munite di carreggiate indipendenti o separate da spartitraffico, ciascuna con almeno due corsie di marcia, esse vanno altresì escluse dalla disposizione contenuta nella lettera D, dell’art. 2, relativa alle strade urbane di scorrimento.
In altri termini, le strade urbane che presentano le caratteristiche indicate nelle lettere E ed F dell’art. 2, codice della Strada, non rientrano nelle ipotesi previste dell’articolo 4, primo comma legge 1 agosto 2002, n. 168.
Di conseguenza, riferisce la Suprema Corte, la deroga al principio di immediata contestazione sancito all’art. 200 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Codice della Strada) non può valere nell’ipotesi in cui la trasgressione avvenga in un centro urbano, al di là e indipendentemente dal fatto che la polizia municipale abbia provveduto ad installare apparecchi di rilevamento elettronico.
Le trasgressioni del Codice della Strada commesse in una strada urbana, benché siano accertate con l’ausilio di mezzi tecnici di controllo, richiedono, dunque, l’immediata contestazione da parte degli organi di polizia.
A sostegno di tale ragionamento, la Suprema Corte ha avuto modo di osservare che “Il prefetto ha ampia discrezionalità nel valutare gli indici che gli consentono di includere un tratto di strada tra quelle adatte al controllo remoto dell'eccesso di velocità ai sensi dell'art. 4 d.l. n. 121 del 2002, conv. nella l. n. 168 del 2002. Tuttavia, egli non può autorizzare tratti stradali diversi da quelli previsti dalla legge. La possibilità da parte del Prefetto di inserire nell'apposito elenco una strada urbana è condizionata, quindi, alla verifica della presenza delle caratteristiche indicate dall'art. 2 c. strad., senza le quali la strada non può essere classificata come strada urbana di scorrimento.” (Cass. civ., n. 11/3701).
La Corte di Cassazione, dunque, è intervenuta stabilendo che la norma esclude si possano classificare come strade adatte all’utilizzo di sistemi elettronici di rilevamento remoto della velocità quelle che non presentino tutti i requisiti indicati come minimi dalla normativa. Nel caso delle strade urbane, gli autovelox per la rilevazione della velocità a distanza senza obbligo di contestazione immediata ai sensi della legge 168/2002, possono essere posizionati solo su strade urbane di scorrimento.

lunedì 19 dicembre 2011

Condominio – Per l’approvazione delle tabelle millesimali condominiali non occorre l’unanimità dei partecipanti al condominio (Cass. Sez. un. 9.8.2010, n. 18477)

Le Sezioni unite intervengono a comporre il variegato e articolato contrasto giurisprudenziale incentrato sulla ripartizione delle spese comuni che derivano dall’approvazione delle tabelle millesimali, con una decisione che di certo avrà un effetto deflattivo delle liti condominiali.
Le Sezioni unite,  con la pronuncia in commento, prendono le distanze dal più consolidato orientamento della stessa Corte di legittimità.
Tale primo indirizzo interpretativo sosteneva che ai fini dell’approvazione o della revisione delle tabelle millesimali occorreva il consenso di tutti i condòmini e, ove fosse mancato il consenso unanime, alla formazione delle tabelle avrebbe dovuto provvedere il giudice su istanza degli interessati e in contradditorio con tutti i condòmini (cfr. Cass. 5.6.2008, n. 14851; Cass. 19.10.1988, n. 5686).
Tale prima tesi faceva leva su una serie di ragioni: a) la determinazione dei valori della proprietà di ciascun condòmino è regolata dalla legge, sicché essa non rientrerebbe tra le competenze dell’assemblea (Cass. 96/7359); b) l’atto di approvazione delle tabelle millesimali sarebbe un atto di  natura negoziale da inquadrare nell’ambito dei negozi di accertamento (Cass. 64/1801); c) il carattere pregiudiziale delle tabelle millesimali rispetto alla costituzione e alla validità delle deliberazioni condominiali (Cass. 67/520).
Dunque, secondo tale orientamento in conseguenza della inesistenza di una norma che attribuisca all’assemblea la competenza a deliberare in tema di tabelle millesimali, la deliberazione di approvazione delle tabelle adottata a maggioranza sarebbe inefficace nei confronti del condòmino assente o dissenziente per nullità radicale deducibile senza limitazione di tempo (Cass. 96/7359).
Ebbene, secondo una diversa e più recente interpretazione accolta dalle Sezioni unite, la legge non regola le concrete modalità di determinazione dei millesimi, ma si limita a stabilire che essi debbono costituire “espressione del valore di ogni piano o porzione di piano” (cfr. 68, disp. att. c.c.).
D’altro canto, invece, per orientamento consolidato, la natura contrattuale di un atto dovrebbe conseguire soltanto quando le clausole siano “limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto ad altri” (Cass. 99/11960 in Giust. civ. 2010, 10, 2148).
Diversamente, le Sezioni unite sottolineano come la tabella millesimale serva solo ad esprimere, in termini aritmetici, un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condòmini senza, tuttavia, incidere in nessun modo sui diritti appartenenti agli stessi (Cass. 90/431).
In sostanza, i condòmini, quando approvano le tabelle millesimali, non fanno altro che riconoscere l’esattezza delle operazioni di calcolo della proporzione tra il valore della quota e quello del fabbricato.
In altri termini, essi prendono solo atto della traduzione in frazioni millesimali di un rapporto di valori preesistente.
Secondo tale impostazione, per compiere un’operazione di questo tipo non serve un negozio di accertamento atteso che non v’è nessuna incertezza da rimuovere.
La deliberazione che approva le tabelle millesimali non si pone come fonte diretta dell’obbligo contributivo, bensì come parametro di qualificazione dell’obbligo, determinato in base ad una mera azione ricognitiva della realtà.
In questo senso, dunque, una determinazione quale quella adottata con l’approvazione della tabella millesimale, non incidendo sul diritto di proprietà, ma piuttosto sulle obbligazioni, cosiddette propter rem, ove fosse viziata da un mero errore materiale, vi si potrebbe porre rimedio mediante la revisione della tabella ex art. 69, disp. att. c.c..
A sostegno della tesi qui riportata, si rileva altresì che, in base alle diposizioni contenute dall’art. 68, disp. att., cc., le tabelle millesimali sono allegate al regolamento di condominio il quale, a mente dell’art. 1138 c.c., viene approvato dall’assemblea a maggioranza dei condòmini.
Ne consegue che tali tabelle millesimali andranno, pertanto, approvate con la stessa maggioranza richiesta per il regolamento di condominio.
Ciò considerato, le Sezioni unite hanno concluso di non potersi riconoscere natura contrattuale allea tabelle millesimali per il solo fatto che, ai sensi dell’art. 68, disp. att. c.c., esse siano allegate ad un regolamento di origine cosiddetta “contrattuale”, ove non si sia espressamente previsto derogare al regime legale di ripartizione delle spese ex art. 1123 c.c..
Di conseguenza, in virtù delle considerazioni dianzi riportate, le Sezioni unite hanno affermato che le tabelle millesimali non devono essere approvate con il consenso unanime dei condòmini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136, comma 2, c.c.

sabato 17 dicembre 2011

I rapporti tra la frode fiscale e la truffa aggravata ai danni dello Stato.

La Corte di Cassazione a Sezioni unite è stata chiamata a decidere se sussista o meno il rapporto di specialità  (o di consunzione) tra i reati di frode fiscale – nella specie infedele dichiarazione IVA mediante ricorso a fatturazioni per operazioni inesistenti - e di truffa aggravata.
Sul punto, si erano formati tre orientamenti interpretativi:
a)     Un indirizzo minoritario escludeva l’applicazione del principio di specialità tra i reati in commento, ravvisando, dunque, la sussistenza del concorso di norme.
Tale insegnamento sulla scorta del criterio interpretativo del bene giuridico tutelato dalla norma penale, escludeva la specialità tra le due ipotesi di reato dato che la frode fiscale non richiede l’effettiva induzione in errore dell’Amministrazione finanziaria, né il conseguimento di un ingiusto profitto con danno dell’Amministrazione (Cass. sez. 5, 23.1.2007, n. 6825).
b)     L’orientamento prevalente sosteneva, invece, la sussistenza del rapporto di specialità tra le fattispecie in argomento, osservando che l’unica contestazione addebitale fosse quella della normativa tributaria. L’insegnamento basava la propria conclusione su una serie di ragioni: i) il delitto di infedele dichiarazione IVA è connotato da uno specifico artificio (utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e da una condotta a forma vincolata; ii) non sussiste la specialità reciproca tra i reati de quibus; iii) il  reato tributario si connota, quale delitto speciale, come reato di pericolo o di mera condotta poiché la sua consumazione prescinde dal verificarsi dell’evento di danno; iv)  la negazione della sussistenza del criterio di specialità tra i reati in commento sarebbe in contrasto con la linea di politica criminale con la ratio che ha ispirato la riforma introdotta dal D.Lgs. 274/2000; v) da ultimo, la specialità del delitto tributario rispetto a quello comune di truffa emerge anche dal fatto che la condotta di frode al fisco, se non intende realizzare finalità diverse ed ulteriori, non può che esaurirsi nella disposizione prevista dalla normativa tributaria (ex multis: Cass. sez. 2, 2.7.2009, n. 30537; Cass. sez. 2, 11.1.2007, n. 5656).
c)     Un terzo orientamento fa leva sul principio di consunzione ritenendo che i due reati tutelino il medesimo interesse applicando il delitto con il trattamento sanzionatorio più grave, ossia la frode fiscale (Cass. sez. 3, n. 37410 del 2007).
Le Sezioni unite, risolvendo il contrasto interpretativo posto all’origine della questione in esame, partono da due presupposti.
In primo luogo, la Corte ha aderito al principio in base al quale in caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità (Art. 15 cod. pen.) richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle.
In secondo luogo, la Relazione governativa al D.Lgs. n. 74/2000 premetteva che la dichiarazione fraudolenta “si connota come quella ontologicamente più grave: essa ricorre, infatti, quando la dichiarazione non soltanto non è veridica, ma risulta altresì insidiosa, in quanto supportata da un “impianto contabile”, o più genericamente documentale, atto a sviare o ad ostacolare la successiva attività di accertamento dell’amministrazione finanziaria, o comunque ad avvalorare artificiosamente l’inveritiera prospettazione di dati in essa racchiusi”.
In sostanza, il legislatore già reputava che la condotta descritta dalla normativa tributaria oltre ad essere di particolare disvalore, era anche oggettivamente idonea a raggiungere lo scopo perseguito, ossia esporre in concreto a pericolo il bene tutelato dalla norma.
Da tale assunto, era possibile affermare che la presenza di un evento di danno in senso naturalistico non rilevava ai fini dell’integrazione della fattispecie oggettiva.
A ciò si aggiunge che le novelle legislative intervenute successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo in commento, hanno ancor di più avvalorato la tesi in commento.
Il sistema sanzionatorio in materia fiscale, infatti, presenta una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi posti a tutela dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali.
Applicando i principi sopra affermati, si evidenzia come la frode fiscale sia connotata da uno specifico artifizio, costituito da fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
Dunque, il conseguimento di un’eventuale indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d’imposta non rileva ai fini della configurabilità del reato di frode fiscale, poiché il legislatore ha inteso anticipare il momento consumativo del  reato alla commissione della condotta tipica.
Il reato di frode fiscale si connota, dunque, come reato di pericolo o di mera condotta.
Sulla scorta di tale iter argomentativo, le Sezioni unite, con la sentenza in commento, sono giunte alla conclusione tale per cui “i reati in materia fiscale di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8, sono speciali rispetto al delitto di truffa aggravata a danno dello Stato  di cui all’art. 640 c.p., comma secondo, n. 1” (Cass. sez. un. 19.1.,2011, n. 1235)
Pertanto, il rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale (artt. 2 ed 8, D.Lgs. 10.3.2000, n. 74) ed il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma secondo, n. 1, cod.pen.) va ravvisato tutte le volte in cui la condotta fraudolenta diretta all’evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale.
Solo quando dalla condotta di frode fiscale “derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni” deve, invece, ritenersi configurabile il concorso fra il delitto di frode fiscale e quello di truffa.
Quando, infatti, l’agente si rappresenta un ulteriore evento di danno diverso dalla specifica fattispecie in materia fiscale, l’attività frodatoria è diretta non all’evasione fiscale, ma anche a finalità ulteriori.
 In questo caso, non sussiste alcun problema di rapporto di specialità tra le norme, perché una stessa condotta viene utilizzata per finalità diverse, violando diverse disposizioni di legge, senza esaurirsi nell’ambito del quadro sanzionatorio delineato dalle norme fiscali.
Ne deriva che solo in tale ipotesi sussiste la concorrenza dei reati de quibus, attesa l’esistenza di  finalità diverse compresenti in un'unica azione criminosa. (cfr. Cass. sez. un. 19.1.,2011, n. 1235; Cass. Sez. un., n. 27/2000; Cass. Sez. 2, 23.11.2006, n. 40266).

venerdì 16 dicembre 2011

Le Sezioni Unite si pronunciano sullo schema negoziale della polizza fideiussoria


La questione in materia di polizza fideiussoria richiede innanzitutto l’esame di due tipi contrattuali: a) la fideiussione; b) il contratto autonomo di garanzia.
Il contratto fideiussorio svolge una funzione di garanzia attraverso l’estensione del potere di aggressione del creditore nei confronti di un nuovo debitore, garante, peraltro, sempre nei limiti dell’obbligazione del debitore principale.
La fideiussione è quindi un’obbligazione accessoria nel senso che sussiste in tanto in quanto esiste l’obbligazione principale ed il cui contenuto viene determinato in base al contenuto di quest’ultima.
Il principio di accessorietà è contenuto nell’articolo 1945 c.c.. Mentre, il capitolo delle eccezioni opponibili dal fideiussore al creditore è rinvenibile  nell’articolo 1957 c.c. che lega la garanzia alla scadenza dell’obbligazione principale e impone al creditore di attivarsi anche nei confronti del debitore principale.
Diversamente, il contratto autonomo di garanzia è il negozio in base al quale una parte si obbliga a titolo di garanzia ad eseguire a prima richiesta la prestazione dovuta dal debitore originario indipendentemente dall’esistenza, validità ed efficacia del rapporto di base da cui scaturisce il debito principale, con l’impossibilità per il garante di sollevare eccezioni.
Ebbene, sulla distinzione tra le due figure negoziali in tema di polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore è sorto un contrasto giurisprudenziale articolato essenzialmente su due aspetti.
Il primo riguarda la presenza della clausola di “solve et repete” all’interno della assicurazione fideiussoria.
Secondo un primo filone interpretativo non è possibile desumere dalla sola presenza di tale clausola la natura di garanzia atipica poiché occorre verificare la relazione in cui le parti hanno inteso porre l’obbligazione principale rispetto all’obbligazione di garanzia: alcune pronunce, infatti, escludono l’accessorietà solo ed esclusivamente qualora vi sia previsione specifica in tal senso nel contratto fideiussorio (cfr. Cass. n. 52/2004 e Cass. 23900/06).
Sul punto le Sezioni Unite intervengono con la sentenza n. 3947 del 2010 sostenendo, al contrario, aderendo ad un altro indirizzo interpretativo, che l’inserimento in un contratto di assicurazione di una clausola “a semplice richiesta” o “senza eccezioni” vale di per sé a trasformare la polizza fideiussoria in un contratto autonomo di garanzia, attesa l’incompatibilità con il principio di accessorietà che caratterizza la fideiussione.
Tale affermazione non è però sufficiente per risolvere la natura e gli effetti della polizza fideiussoria.
La stessa sentenza delle Sezioni Unite sopra richiamata lo riconosce.
Fino alla pronuncia in commento, sussisteva un dibattito assai più approfondito sotto il profilo sostanziale, fondato sul presupposto di partenza (comune ad entrambe le contrapposte tesi) che lo schema negoziale della polizza fideiussoria fosse quello del contratto a favore di terzi.
Tale dibattito verteva, infatti, sul differente rilievo che viene dato alla causa concreta della stessa polizza fideiussoria.
Un primo orientamento ritiene che si tratti di un contratto con causa mista nel quale confluiscono anche elementi dell'assicurazione pur mantenendo una predominante funzione di garanzia che comporta, secondo il principio della
prevalenza
, l'applicazione delle norme del contratto tipico di fideiussione, senza escludere, però, che possano trovare applicazione anche clausole contrattuali con questa incompatibili o che possa, comunque, derogarsi alla disciplina tipica della fideiussione.
In questo senso, da ultimo, è stato sostenuto che “ la cosiddetta assicurazione fideiussoria costituisce una figura contrattuale intermedia tra il versamento cauzionale e la fideiussione ed è contraddistinta dall'assunzione dell'impegno, da parte (di una banca o) di una compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente. E, poi, caratterizzata dalla stessa funzione di garanzia del contratto di fideiussione, per cui è ad essa applicabile la disciplina legale tipica di questo contratto, ove non derogata dalle parti” (Cass. n. 12871/09).
Diversamente, si pone, invece, altro orientamento sostenuto, da ultimo, dalle Sezioni Unite della Cassazione.
Viene evidenziata, innanzitutto, la diversa causa concreta del contratto autonomo di garanzia rispetto alla fideiussione.
La funzione economica del contratto autonomo è quella di trasferire ad un diverso soggetto il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale; nel contratto autonomo, quindi, il garante è tenuto ad una prestazione qualitativamente diversa da quella dell’obbligato principale (tenere indenne il beneficiario dal nocumento per la mancata prestazione del debitore).
Il fideiussore, invece, è debitore allo stesso modo del debitore principale e si obbliga direttamente ad adempiere.
In tale prospettiva, la polizza fideiussoria, in cui il garante si obbliga solo ad assicurare la soddisfazione dell’interesse economico del beneficiario compromesso dall’inadempimento, l’obbligo assunto dal garante è differente dall’obbligazione principale e svincolata dai principi di solidarietà e accessorietà che caratterizza, invece, la prestazione fideiussoria.
Da tale iter argomentativo, ne consegue l’inapplicabilità delle norme dettate in tema di fideiussione relativamente ai vincoli temporali per l’esercizio dell’azione di rivalsa ex art. 1957 c.c..
Le S.U. della Corte di Cassazione hanno, infatti, affermato che “al contratto autonomo di garanzia, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, non si applica la norma dell'art. 1957 c.c., sull'onere del creditore garantito di far valere tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, poiché tale disposizione, collegata al carattere accessorio dell'obbligazione fideiussoria, instaura un collegamento necessario e ineludibile tra la scadenza dell'obbligazione di garanzia e quella dell'obbligazione principale, e come tale rientra tra quelle su cui si fonda l'accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile ad un'obbligazione di garanzia autonoma” (Cass. SU 18/2/2010 n. 3947 in FI 2010, 2799 ss. e GI 2010 2032 ss.)

giovedì 15 dicembre 2011

L'accesso alla rete internet per fini personali da parte di un pubblico ufficiale integra il reato di peculato ex art. 314, c.p.?

Il delitto di peculato punisce il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che intenda appropriarsi di somme di denaro o cose mobili di cui abbia la detenzione o la disponibilità in ragione dell'ufficio.
Il quesito impone di esaminare l’elemento oggettivo del reato soffermandosi, in particolare, da una parte, sull’elemento materiale del reato, dall’altra, sugli interessi tutelati dal delitto di peculato.
Nell'oggetto materiale possono rientrare anche beni che non presentano una connotazione propriamente materiale come, ad esempio, le cosiddette energie. Secondo tale definizione è possibile, dunque, collocare tra gli elementi materiali del reato anche la connessione telefonica.
Quanto ai beni tutelati dalla norma in commento, l’art. 314, comma primo, c.p., mira, da un lato, alla tutela dei principi di legalità e buon andamento della pubblica amministrazione e, dall’altro, si pone a protezione dell’integrità del patrimonio della stessa pubblica amministrazione.
Trattasi, pertanto, di una reato a natura plurioffensiva.
Tuttavia, anche a voler considerare la fattispecie in commento come plurioffensiva resta, comunque, da rimarcare, secondo un orientamento di recente applicazione, che l’interesse prevalente tutelato dal reato di peculato è quello di patrimonio della pubblica amministrazione.
Pertanto, sebbene il peculato rappresenti una fattispecie autonoma di appropriazione indebita, posta a tutela del dovere di fedeltà, è indispensabile, ai fini della tipicità stessa del fatto, che la cosa su cui si estrinseca la condotta abbia una sostanza economica almeno astrattamente individuabile e valutabile, venendo meno altrimenti l’oggetto materiale della condotta.
Tale principio, va poi integrato dal criterio di offensività in concreto della condotta incriminata, sancito dall’art. 49, secondo comma, c.p., secondo cui, in mancanza di un’effettiva capacità lesiva della condotta, la fattispecie in concreto realizzata dall’agente non potrà essere punibile.
Riportando tale principio al caso di utilizzo di servizi internet, rileva, dunque, se la connessione sia o meno costante da parte dell'ente e se tale connessione richieda ogni volta l'effettuazione di una chiamata telefonica .
Più precisamente, il caso di specie richiede di distinguere tra una connessione ad internet  cosiddetta a costo fisso, ovverosia con accesso costante al web con tariffa forfettaria ed una che, invece, consente l’accesso alla rete internet solo di volta in volta e previo contatto telefonico ed al costo di quest'ultimo.
Infatti, solo in quest’ultimo caso l'utilizzatore abusivo si appropria, oltre che dell'energia elettrica consumata con l'accensione dell'apparecchio – di per sé non apprezzabile - delle energie appartenenti all'ente sotto forma di telefonate di volta in volta eseguite per la navigazione in internet per finalità estranee alla pubblica funzione così configurandosi l'appropriazione di cosa mobile e con essa il danno all’ente pubblico.
Tale tesi è supportata in ultimo da Cass. Pen.15 aprile 2008 n. 20236 e Cass. Pen. 19 ottobre 2010 n. 41709.
Nel caso di specie, dunque, l’agente non si appropria di alcun bene mobile poiché la connessione ad internet cosiddetta flat non richiede, quindi, le singole telefonate per ogni collegamento al web al di fuori dell'interesse della pubblica amministrazione e, pertanto, non è rilevabile alcuna appropriazione di cose di proprietà dell'ente.
Va altresì precisato che, in tal caso, potrà escludersi anche il delitto di abuso di ufficio, tenuto conto dell'assenza di un vantaggio patrimoniale di alcun tipo a favore dell'agente e, di converso, di un danno per l'ente.
Dovrà, dunque, concludersi, secondo tale indirizzo interpretativo, che in un ipotetico giudizio penale, il pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio dovrà essere mandato assolto perchè il fatto non sussiste, ove l'agente abbia utilizzato una connessione ad internet a costo fisso.

lunedì 12 dicembre 2011

L’omissione del versamento del quinto dello stipendio da parte del datore di lavoro al cessionario integra il reato di appropriazione indebita?

Si è a lungo dibattuto se il mancato versamento da parte del datore di lavoro al cessionario della quota di retribuzione spettante al lavoratore possa o meno integrare il reato di appropriazione indebita.
Gli “Ermellini” sono recentemente intervenuti a comporre il contrasto giurisprudenziale con sentenza a Sezioni Unite del 25 maggio 2011, n. 37954.
Si tratta di una questione sulla quale già in passato le Sezioni Unite avevano avuto modo di interrogarsi, concludendo per la mancata configurabilità del reato in commento (cfr. Cass. S.U. 27 ottobre 2004 n. 1327, Li Calzi).
Tuttavia, la pronuncia del 2004 non poneva fine al contrasto, che veniva di nuovo portato alla luce da sentenze di segno opposto (cfr. Cass. sez. II, 7 febbraio 2008 n. 8023 e Cass. sez. II, del 18 aprile 2007 n. 19911).
Il pomo della discordia, se così si può dire, su cui i due orientamenti divergono è la nozione di altruità della cosa.
L’art. 646 c.p. punisce chiunque si appropri di denaro o cosa mobile altrui di cui legittimamente dispone, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto.
Si tratta, dunque, di stabilire se, nel caso di specie, il denaro trattenuto dal datore di lavoro al fine di trasmetterlo al cessionario possa essere considerato “altrui” rispetto al suo patrimonio e già appartenente al patrimonio del lavoratore, sin dal momento in cui la trattenuta viene calcolata ed operata in busta paga. 
Secondo un primo orientamento, le somme trattenute dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente e destinate a terzi a vario titolo (per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto o fatto idoneo a far sorgere nel datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore) fanno parte integrante della retribuzione spettante al lavoratore come corrispettivo per la prestazione già resa.
Si ritiene, dunque, che tali somme non appartengano più al datore di lavoro, che ne ha solo una disponibilità precaria, intesa come vincolata al raggiungimento di un determinato scopo.
La quota retributiva trattenuta, infatti, ha una destinazione precisa che non può essere modificata unilateralmente in maniera lecita, ed è vincolata ad un versamento da effettuare entro un termine previsto a garanzia del terzo e del lavoratore.
Proprio questo vincolo di indisponibilità dimostra, secondo la tesi in commento, l’altruità delle somme accantonate (cfr. Cass. pen., n. 5785/99).
Il principio espresso, sebbene sovvertito con la nota sentenza S.U. Li Calzi, nondimeno veniva di recente ripreso dalle sentenze più recenti.
Il riaffiorare, dunque, del contrasto giurisprudenziale, nonostante la pronuncia del 2004, ha spinto la Suprema Corte ad affrontare, ancora una volta a Sezioni Unite, la questione.
Il secondo orientamento parte da un presupposto diverso rispetto al precedente indirizzo interpretativo, che ravvisava nelle somme trattenute un vinculum iuris di destinazione.
Secondo l’ultima tesi, le somme di denaro che il datore di lavoro trattiene per sé non costituiscono parte del patrimonio del dipendente, ma restano nella esclusiva disponibilità del datore di lavoro-possessore.
Due sono le ragioni su cui si fonda tale iter argomentativo.
Da un lato, la quota retributiva trattenuta, non viene mai materialmente versata al lavoratore; dall’altro, mai potrebbe esserlo, avendo il dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute alla fonte dal datore di lavoro.
Dacché, le trattenute oggetto del reato di appropriazione indebita si risolverebbero, tutt’al più,
in un’operazione meramente contabile diretta a determinare l’importo effettivo della somma che il datore di lavoro è obbligato a versare al lavoratore a titolo di retribuzione (Cass. pen. 4.3.2010, n. 15115).
L’insegnamento in commento, quindi, pone alla base del suo ragionamento la relazione giuridica che intercorre tra la somma vincolata ed il patrimonio del datore di lavoro, che qui riveste al contempo anche la funzione di debitore ceduto.
Ebbene, a sostegno del principio espresso, la Suprema Corte a Sezioni Unite osserva che non v’è dubbio che al momento del sorgere dell’obbligazione tale somma sia rappresentata da una quota ideale del suo patrimonio, indistinta da tutti gli altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo.”
Se, dunque, il datore di lavoro si assume l’obbligo giuridico di impiegare denaro o cose facenti parte del suo patrimonio, ove risulti inadempiente, sarà al massimo responsabile per l’inadempimento civile, non potendogli essere imputata alcuna condotta appropriativa, mancando proprio il presupposto dell’altruità della cosa.
Ne consegue, a contrariis, che solo ove l’inadempiente riceva il denaro o la cosa per impiegarli  o destinarli nell’interesse del terzo, la sua condotta di apprensione e sottrazione del bene alla destinazione integrerà il delitto di cui all’art. 646 c.p..
Ciò che rileva, in sostanza, è l’origine del denaro o della cosa oggetto del reato, sicchè la provenienza dall’esterno rispetto al patrimonio dell’agente dell’oggetto materiale del reato, rappresenta il discrimine tra le condotte sanzionate penalmente e quelle che integrano, invece, un mero inadempimento di natura civilistica.
Va, dunque, ribadita la regola secondo la quale, mancando un conferimento di denaro ab externo, il mero inadempimento ad opera del datore di lavoro dell’obbligazione di consegnare una somma di danaro, ad uopo trattenuta dalla busta paga del lavoratore, ad un creditore cessionario da questi individuato, non integra la nozione di appropriazione indebita.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, in conclusione, a sostegno delle ragioni qui espresse  ha stabilito che “non può rispondere del delitto in questione colui che non adempia ad obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo” (Cass. pen. SS.UU, 25 maggio 2011 n. 37954).

sabato 10 dicembre 2011

Il contrasto interpretativo in seno alla Suprema Corte: integra il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico anche chi è abilitato ad accedervi e vi si trattiene contro la volontà del titolare del sistema informatico?


Prima di occuparsi della questione che ha visto sorgere ampio dibattito giurisprudenziale in seno alla Corte di legittimità, occorre premettere brevi cenni sull’art. 615 ter che disciplina il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico.
Il delitto in commento, al primo comma, punisce chiunque si introduca abusivamente ad un sistema informatico, ovvero vi si trattenga contro la volontà espressa o tacita di chi ha il potere di escluderne l’accesso.
Il bene giuridico tutelato che la norma si prefigge di proteggere è il domicilio informatico, inteso come spazio ideale di pertinenza della persona fisica o giuridica che sia. Non a caso la norma è collocata nella sezione concernente i delitti contro la inviolabilità del domicilio e nella relazione al disegno di legge i sistemi informatici sono stati definiti un'espansione ideale dell'area di rispetto pertinente al soggetto interessato, che trova il proprio fondamento nell’art. 14 Cost..
L’art. 615 ter richiede la sussistenza del dolo generico, ossia che l’agente sia mosso dalla volontà di introdursi o mantenersi all’interno di un sistema informatico altrui contro la volontà di colui che è titolare del diritto di esclusione.
Venendo, infine, al contenuto oggettivo del dettato normativo dell’art. 615 ter, la condotta richiede alternativamente l’accesso abusivo ovvero la permanenza nel sistema contro la volontà di chi ha il diritto di escluderlo.
Ebbene, con riferimento al dato oggettivo della fattispecie delittuosa, di non facile soluzione è il caso in cui l’agente titolare di password ed abilitato, quindi, ad accedere ad un sistema informatico protetto, si trattiene per scopi non consentiti o illeciti.
La questione ha impegnato e tutt’ora occupa la giurisprudenza di legittimità che in merito al problema delineato ha recentemente preso atto che esiste un contrasto interpretativo, tanto è vero che il Collegio ha rimesso la soluzione della questione alle Sezioni Unite Penali (Sez. 5^, 11 febbraio - 23 marzo 2011, n. 11714/11).
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale che valorizza il dettato dell'art. 615 ter, comma primo, prima parte, è illecito il solo accesso abusivo, e cioè quello effettuato da soggetto non abilitato, mentre sempre e comunque lecito è l'accesso del soggetto abilitato , ancorchè se ne sia avvalso per finalità illecite (così Cass. pen. 13.10.2010, n. 38667; Cass. pen, n. 26797/08).
Applicando il principio qui espresso, tutti gli accessi realizzati da soggetti titolari legittimi di una chiave logica o password dovrebbero, quindi, ritenersi leciti sebbene gli stessi abbiano utilizzato la possibilità di accesso per acquisire notizie da divulgare a soggetti interessati, violando disposizioni di legge o per finalità contrarie a quelle previste dalla legge o dal titolare del dominio.
Aderendo a questo indirizzo della Suprema Corte, commette il reato chi si introduce senza autorizzazione e, quindi, privo di password, nel sistema informatico, ma non anche chi, si introduce legittimamente perchè in possesso della chiave logica, anche se per finalità contrarie a compiti di istituto.
Come anticipato sussiste, tuttavia, altro e maggioritario indirizzo della Suprema Corte, fondato su un’interpretazione letterale dell’elemento oggettivo del delitto in commento.
Secondo tale impostazione, commette il reato di cui all’art. 615 ter c.p. non solo chi si introduce abusivamente nel sistema informatico protetto, ma anche chi si trattiene al suo interno, contro la volontà espressa o tacita di chi abbia diritto di escluderlo, per finalità diverse da quella per le quali l'abilitazione è stata concessa (Cass. pen. n. 24583/11; Cass. pen. 8.7.2008, n. 37322; Cass. pen. 7.11.2000, n. 12732).
La lettura della norma si fonda su una interpretazione letterale ed oggettiva della disposizione di legge che prevede due distinte ipotesi di reato: a) da una parte l’abusiva intrusione; b) dall’altra, la permanenza nel sistema informatico contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo.
Ciò ha legittimato recenti pronunce della Corte di legittimità a sostenere che integra la fattispecie criminosa - ex art. 615 ter - anche chi, autorizzato all'accesso per una determinata finalità, utilizzi il titolo di legittimazione per una finalità diversa e, quindi, non rispetti le condizioni alle quali l’accesso era subordinato (Cass. pen. 24583/11 e 19463/10).
Mette conto, infatti, che la violazione dei dispositivi di protezione del sistema informatico “non assume rilevanza di per sè perchè non si tratta di un illecito caratterizzato dalla effrazione dei sistemi protettivi, bensì solo come manifestazione di una volontà contraria a quella di chi del sistema legittimamente dispone” (Cass. pen. 24583/11).
E del resto, secondo la tesi in commento, se si volesse accogliere l’orientamento in precedenza esposto, verrebbero trascurate sia la disposizione della seconda parte del primo comma, sia quella contenuta nel secondo comma che contemplano l’accesso del soggetto abilitato.
Il dibattito resta, tuttavia, aperto in attesa della pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite chiamata a comporre il contrasto interpretativo.